duminică, 30 ianuarie 2011

Inchiesta sull’ONU/1: L’antisemitismo al Palazzo di vetro

Il problema dell’antisemitismo in seno alle Nazioni Unite è vecchio quasi quanto l’Organizzazione: tanti sono gli episodi in cui l’ONU ha mostrato tutta la sua incapacità di difesa o, addirittura, una precisa volontà di attacco nei confronti del popolo ebraico.
Già nel 1948 l’ONU non si adoperò per difendere la propria risoluzione su Israele e su Gerusalemme, per giungere poi a riconoscere de facto il diritto al terrorismo.
Quando, nel 1967, il dittatore egiziano Gamal Abdel Nasser, che non nascondeva «l’obiettivo di distruggere Israele», chiese all’ONU di ritirare i Caschi blu presenti nell’area, ottenne subito ciò che voleva, nonostante avesse già schierato 80 mila uomini e 550 carri armati al confine con lo Stato ebraico.
Nel 1975 il dittatore razzista e assassino dell’Uganda, Idi Amin Dada, tra gli applausi degli ambasciatori presenti, chiese l’espulsione di Israele dall’ONU e lo «sterminio» dello Stato ebraico. Quel giorno l’Assemblea Generale approvò la risoluzione passata alla storia con il nome «Il sionismo è razzismo».
Un comunicato a seguito della conferenza delle Nazioni Unite a Caracas, diffuso dal Dipartimento dell’Informazione Pubblica delle Nazioni Unite il 14 Dicembre 2005, titola: «Una soluzione a due stati del conflitto Israelo-Palestinese non è più praticabile».
A completare il quadro, le recenti dichiarazioni del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, che nell’ottobre 2005 ha invocato la distruzione di Israele e la sua cancellazione dalla mappa geografica. Il giorno successivo a queste dichiarazioni, il ministro degli Esteri Silvan Shalom ha richiesto una riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza. In quell’incontro, tutti i 15 membri hanno condannato le affermazioni di Ahmadinejad, mentre Kofi Annan si è detto costernato per i commenti e ha ribadito gli obblighi dell’Iran e il diritto all’esistenza di Israele. Ciò nonostante, Ahmadinejad ha riaffermato la sua posizione il 28 ottobre 2005, augurando «morte a Israele e all’America». Questo atteggiamento, unito ai propositi di riarmo nucleare, pone una seria sfida per le Nazioni Unite, che tutti sperano possa essere risolta per vie diplomatiche.
L’ONU nacque in un momento di straordinaria moral clarity, in cui i fondatori seppero distinguere “senza se e senza ma” tra l’aggressione dei nazifascisti e il proprio ruolo di liberatori. L’obiettivo attuale deve essere ritrovare quella chiarezza morale, evitando di incorrere in pericolosi quanto antistorici negazionismi. L’Europa ha un grande compito a tal proposito, e deve riuscire a parlare con una voce sola contro le falsità e il terrorismo, in difesa della democrazia. Israele ha diritto ad esistere, e gli ebrei a ricevere scuse.

Un iraniano a Bologna

Mahmoud, studente di Scienze della Comunicazione all’Università di Bologna, racconta la sua esperienza prima e dopo la partenza dal suo paese.

- Nik, partiamo dal nome: preferisci non essere chiamato Mahmoud, vero?

Certamente. Il mio nome anagrafico è un nome arabo e islamico. La mia lingua madre è il persiano, e non riconoscendomi neanche nella religione musulmana non mi riconosco in questo nome.

- Parlaci della tua vita a Teheran.

Facevo la vita da un ragazzo del ceto medio. Mi sono laureato in letteratura inglese. Facevo il cronista per una rete televisiva in lingua inglese della macchina di propaganda del Regime: era l’unico modo per poter praticare questo mestiere. Ovviamente si viveva una doppia vita, e dovevi dire quello che volevano loro. Per fortuna che pochi superiori conoscevano l’inglese!

- Quando hai lasciato l’Iran e cosa ti ha spinto a tale scelta?

28 agosto 2001. Perché volevo essere libero di pensare e vivere e non rischiare di essere arrestato dalla polizia morale ogni volta che camminavo con una persona dal sesso opposto!

- Perché hai scelto l’Italia?

Sono nato a Roma. Conoscevo già la lingua. Volevo ottenere la cittadinanza e vedere che cosa mi ero perso.

- Come ti trovi nel nostro Paese?
E’ molto fastidioso dover chiedere il permesso di soggiorno nel paese dove sei nato! Il resto va bene.

- E a Bologna?

È una bella città dalle dimensioni giuste per uno che arriva da fuori; tra l’altro, affollata di studenti Erasmus, che rendono l’ambiente molto internazionale e cosmopolita. Dall’altro canto, c’è tanto anti-americanismo gratuito e quello che io chiamo “pacifismo da pancia piena” che in questi tempi vanno tanto di moda negli ambienti universitari.

- Ci descrivi la tua giornata tipo?
Lo svolgimento della mia giornata dipende molto dal periodo: ormai mi mancano tre esami alla laurea, quindi capita raramente che frequenti una lezione, a meno che non si tratti di un corso che mi piace e non ho potuto frequentare in passato. Nei periodi di lavoro insegno l’inglese nel pomeriggio, altrimenti a volte vado nel nostro dipartimento o presso la sala centrale dell'Università per controllare la posta e navigare su internet. Di sera mi incontro con gli amici, a volte andiamo in centro di Bologna per un aperitivo. Ogni tanto, da solo o con un amico, vado in piscina. Insomma, non c'è proprio una giornata tipo!

- Come reputi i costi della vita nel nostro paese? Hai bisogno di lavorare molto per pagarti lo studio?

Nella media. L’università costa meno dei paesi anglosassoni, ma più della Germania o dei paesi scandinavi, dove sono quasi gratuite. Io sono fortunato perché faccio l’insegnante d’inglese o comunque lavori legati a questa lingua. Il problema è che quando ti offrono più lavoro, accetti anche se al momento non ne hai bisogno, perché non sai cosa ti può capitare domani… Quindi finisci spesso per essere un lavoratore che studia anziché viceversa.

- Quali ritieni siano le prospettive lavorative una volta laureato?

Il mio corso, Scienze della Comunicazione, almeno a Bologna è molto vasto e dispersivo: ci si occupa di molti campi e discipline, spesso interessanti, ma quasi mai in profondità. Inoltre, ha una impostazione molto teorica; ecco perchè temo che una preparazione del genere non basti e di conseguenza mi sto informando per iscrivermi a un corso di laurea specialistica davvero specializzante, come ad esempio Relazioni internazionali.

- Quali corsi della tua facoltà consiglieresti a chi ha intenzione di studiare a Bologna?

Dipende da quel che si vuol fare. Se vuoi lavorare, partendo dalla base di conoscenze fornite dal mio corso di laurea, il passo non risulta immediato: spesso tutte queste belle conoscenze umanistiche non portano necessariamente all’acquisizione di competenze e capacità per svolgere un lavoro. Bisogna investire, tempo e denaro, in parallelo per imparare le lingue, o acquisire esperienze concrete. Nel nostro corso, come ho accennato, si “studia” la pubblicità senza diventare pubblicitari, si “studiano” siti web senza diventare web designer, si “studia” giornalismo senza farlo, e via dicendo. A volte, ho l'impressione che sia necessario avere ottomila euro per poi fare un master pratico, altrimenti si rischia di sapere tante belle cose senza poter far niente!

- Cosa cambieresti della tua università e cosa invece credi sia un punto di forza?

Quello che cambierei è, come dicevo, la mancanza di approcci pratici allo studio. Un punto di forza è la presenza di tanti accordi e programmi di scambio, anche per periodi brevi e dunque non solo Erasmus (che resta il caso ideale), che danno la possibilità di allargare gli orizzonti e fare esperienze all’estero.

- Se ne avessi la possibilità, ritorneresti in Iran?

Manco morto!

- Come giudichi la cultura occidentale?

La cultura occidentale è quella che accoglie tutti da tutto il mondo è gli dà la possibilità di realizzarsi, di diventare “uno di casa”, ed è così buona, anzi buonista, che fa sì che ci si pieghi a casa propria per esaudire i desideri, nonché i capricci ed i fantomatici “diritti” spesso discutibili degli ultimi arrivati, che non sono altrettanto aperti nei confronti di chi gli accoglie!

- Hai un sogno per il tuo futuro? E per il futuro del tuo Paese?

Il mio sogno di breve termine è di liberarmi dell’etichetta “extra-comunitario”. E poi voglio entrare in politica o fare giornalismo politico che mi appassiona e perché vedo che ce n’è tanto bisogno. Per l’Iran naturalmente spero nella nascita di una democrazia: per questo credo che il cammino intrapreso dall’Afghanistan e dall’Irak verso la libertà dei popoli possa dare una speranza e ispirazione anche agli altri popoli islamici.

Intervista al prof. Vittorio Cigoli

Professore Ordinario di Psicologia Clinica presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano. Direttore dell’Alta Scuola di Psicologia “A. Gemelli”
- Cosa si aspetta dal corso di laurea nel quale lavora? E dall’università?

Sicuramente mi aspetto che l’università sostenga la didattica e la possibilità di fare ricerca. Purtroppo il sistema accademico italiano è ricco di burocrazia, ma questo riguarda l’università italiana in generale. Direi che noi docenti siamo qui soprattutto per fare ricerca. Non siamo professori di liceo, le funzioni sono diverse. Inoltre esistiamo come università in quanto abbiamo programmi internazionali di valore. La Cattolica pone grande attenzione a questo aspetto, facendo buoni investimenti.
Psicologia è una facoltà di prestigio, tra le migliori in ambito non solo italiano, ma internazionale. Si è investito molto in ambito di didattica, secondo una triplice direttiva: la creazione di gruppi di lavoro e laboratori di ricerca per studenti; l’esistenza di lauree magistrali valide; l’istituzione di ben nove master di secondo livello. Del resto, la facoltà di Psicologia della Cattolica ha un’antica e celebre tradizione: padre Agostino Gemelli fu il primo psicologo d’Italia.

- Riesce ad individuare due cose negative e due cose positive dell’università nella quale lavora?

Come accennato prima, aspetti positivi dell’Università Cattolica sono sicuramente il sostegno alla ricerca e i buoni rapporti internazionali. Un ulteriore aspetto è costituito dall’investimento nelle sedi: in particolare la facoltà di Psicologia, con la creazione di una nuova sede e di laboratori in cui gli studenti possano applicare le proprie conoscenze, è da ritenersi all’avanguardia rispetto a tante altre realtà. Trovo difficoltà ad indicare aspetti negativi ascrivibili alla mia università in quanto tale. Sicuramente, l’eccesso di impegni amministrativi dei docenti, spesso impegnati in operazioni come quella di organizzazione dei crediti, che non dovrebbero competergli. Si tratta, però, di un aspetto negativo dettato dall’alto, di cui l’Università Cattolica non ha specifiche colpe. Non vedo altre negatività, anche il rapporto con i colleghi è buono.

- Ci dica almeno tre fattori che dovrebbero caratterizzare, a suo avviso, l’università ideale.

Per cominciare, la valorizzazione, oggi scadente, del corpo docente. Attualmente gli stipendi sono risibili se confrontati con quelli di altri paesi europei; vi sarebbe bisogno di un riconoscimento adeguato del nostro ruolo anche dal punto di vista economico.
In secondo luogo, è fondamentale insistere sugli investimenti per la ricerca. Senza ricerca l’università non compie appieno il proprio ruolo.
Infine, è necessario investire su reti internazionali. In particolare, bisogna attuare la possibilità di ricerca all’estero e lo scambio di esperienze didattiche.

- Cosa suggerirebbe ad uno studente che sta iniziando l’università?

Posso riferirmi alla facoltà di Psicologia, nella quale lavoro. Prima di tutto, bisogna considerare la passione! I ragazzi che si iscrivono all’università devono essere consci che la situazione del mercato del lavoro in Italia è pessima; quindi consiglio vivamente di scegliere una facoltà che li appassioni, con materie che si è sicuri potranno piacere. In Italia vi sono molti psicologi. Per un buon percorso di formazione al giorno d’oggi sono necessari dieci anni di studio universitario, tra università, tirocinio e master. La soddisfazione dal punto di vista economico, purtroppo, è pari a zero. Gli psicologi devono uscire dalla clinica: il mercato clinico è saturo. V’è, invece, una domanda crescente di psicologia applicativa. Sta alle capacità dei laureati ritagliarsi nuovi spazi nel mondo del lavoro; bisogna essere creativi e mettere passione nella propria iniziativa, sfruttando possibilità diverse di lavoro, come quelle che possono venire dalle nuove tecnologie di comunicazione e da internet. La passione è fondamentale sia durante che dopo il percorso di studi.

Professione diplomatico

Essere diplomatico oggi: una missione tra sacrifici e gratificazioni
Intraprendere la carriera diplomatica è un’aspirazione affascinante ma tuttaltro che semplice: cerchiamo di capire quali siano innanzitutto i requisiti caratteriali richiesti ai giovani aspiranti.
Per prima cosa è importante mettere alla prova la propria determinazione, ad esempio attraverso un tirocinio al Ministero degli Affari Esteri o presso un’ambasciata, in modo da poter avere le idee chiare per proseguire nell’inseguimento del proprio obiettivo. Questa possibilità è offerta dall’accordo MAE-CRUI, che rende possibile l’effettuazione di uno stage che avvicini lo studente universitario all’ambiente diplomatico.
Successivamente, sarà più facile constatare la passione e la propensione ad approfondire le questioni internazionali. Sebbene un esercizio utile per ottenere dimestichezza con queste tematiche sia quello di leggere i giornali, ciò non è sufficiente. E’ importante, infatti, congiungere la teoria alla pratica, quindi uscire dall’Ambasciata e calarsi nella realtà locale del paese dove si viene inviati.
Oltre alla motivazione, un’altra questione si presenta agli occhi dell’aspirante diplomatico: l’impiego in diplomazia richiede un cambio frequente di paesi e di funzioni. Il professionista deve essere mentalmente aperto, dotato di fantasia e creatività, e soprattutto emotivamente disponibile a recarsi fuori dal proprio Paese, come spiega François Trémeaud, Direttore esecutivo dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro: «Devi essere pronto ad andare all’estero in termini di difficoltà, famiglia, figli. Non è possibile per un diplomatico rifiutare di essere inviato ovunque nel mondo in qualsiasi momento». Secondo l’Ambasciatore Riccardo Sessa, è importante tenersi in aggiornamento continuo sulle problematiche e sulle novità che nascono nel proprio Paese d’origine.
Ad un diplomatico sono richieste anche altre doti: quelle della riservatezza, della sintesi, della comprensione dei fatti e il senso di responsabilità: uno dei compiti del diplomatico è infatti quello di assicurare l’adempimento degli obblighi pattizi e dei doveri istituzionali. Inoltre, come spiega il Ministro Terzi di Sant’Agata, Direttore Generale per gli Affari Politici Multilaterali e i Diritti Umani, «i diplomatici sono funzionari dello Stato responsabili dell’attuazione delle politiche di governo».
Doti caratteriali devono essere poi accompagnate da una preparazione culturale molto solida, che va dalla storia, alla politica, alle conoscenze linguistiche e all’economia. Quest’ultima sta divenendo sempre più importante nelle questioni che coinvolgono le rappresentanze diplomatiche. E’ nata la figura del Consigliere Commerciale, che all’interno delle Ambasciate e dei Consolati si interessa delle opportunità commerciali per il suo Paese. Ecco che allora la figura del diplomatico assume anche una connotazione manageriale.
Un’altra funzione del diplomatico, a detta dell’Ambasciatore Amaduzzi, è quella di offrire dei servizi agli italiani all’estero. Egli si pone infatti come rappresentante politico del suo governo, mentre i funzionari che operano presso i consolati e le rappresentanze italiane all’estero si occupano di attività più operative, come i rapporti con la stampa o i problemi della comunità italiana.
Il Ministero degli Affari Esteri, inoltre, dovrà coordinare i soggetti attivi sulla scena internazionale, ossia organi quali le regioni, gli enti locali, le università e le aziende private.
L’attività diplomatica, però, oltre a garantire il prestigio, comporta anche degli svantaggi: chiari sono i disagi che possono derivare dal viaggiare continuamente; ciò può dar vita ad una “sindrome di derooting”, ovvero la sensazione di aver perduto le proprie radici a causa dei continui spostamenti.
Il consiglio di Gherardo Casini è allora quello di «specializzarsi lungo il proprio percorso formativo e poi proporsi come “specialisti” in un certo settore» per facilitare la percezione di una propria chiara e precisa identità.
Queste competenze sono valutate da un concorso per titoli ed esami, molto difficile e selettivo, superato il quale si trascorrono nove mesi al Ministero come Segretario di legazione in prova; dopo questo periodo, si è generalmente ammessi al primo grado della carriera diplomatica, quello di Segretario di legazione.
Teoricamente, la macchina diplomatica funziona così: il Ministro, che nomina gli ambasciatori, grado più elevato della carriera, comunica loro la linea politica da seguire; gli ambasciatori gli fanno presente quello che ritengono possibile fare od ottenere, e sulla base di queste informazioni il Ministro prende le sue decisioni, che la diplomazia esegue.
Non bisognerebbe mai dimenticare la definizione di Talleyrand, secondo cui la diplomazia è l’arte del possibile!
Un buon diplomatico ha indubbiamente anche un certo talento nella scrittura. Numerosi sono gli esempi di diplomatici letterati, o diplomatici artisti.
Un esempio tra i tanti è quello di Ivo Andric, diplomatico serbo tra il 1920 e il 1941 e premio Nobel per la letteratura. Probabilmente la sua definizione di diplomatico è tra le più corrette quanto affascinanti che siano state scritte: “Sono uomini di intelligenza profonda ma chiara, uomini di sensibilità semplice e limitata e imperturbabili, ma non insensibili; capaci di sotterfugi, ma non chiusi e misteriosi, sempre meno loschi; forti, ma non rozzi; rapidi e decisi, ma non irascibili o impulsivi; realisti, sobri, ma non monotoni e noiosi. Devono saperne abbastanza, ma non dovrebbe esserci traccia di erudizione o pedanteria in ciò che sanno, e la loro conoscenza dovrebbe sorprendere piacevolmente e forse impressionare coloro con i quali stanno parlando, ma mai imbarazzare, offendere o provocare vergogna. Vale lo stesso per il coraggio: devono averne, e dovrebbe essere solido e affidabile, ma dovrebbero mostrarlo solo in circostanze estreme e conservarlo come se conservassero armi che tutti sanno che possiedono, ma non sono mai viste.
Devono anche possedere immaginazione, ma fino a un certo punto, abbastanza perché un uomo possa considerare ogni tematica da ogni punto di vista e con tutte le sue possibilità e conseguenze immediate; nulla più di questo è pericoloso sia per essi che per il lavoro che stanno compiendo”.
Più breve, ma forse altrettanto incisivo, è Daniele Varé: “Diplomacy is the art of letting someone have your way”.
Ma come si svolge la vita di un ambasciatore? Certamente non si tratta solo di cocktail, danze, cene e champagne. Non è soltanto questo. Per iniziare, vi sono ambasciate e consolati in aree non esattamente prestigiose né comode, esposte a pericoli, a volte ad attacchi, difficoltà di movimento e povertà. In secondo luogo, un ambasciatore ha responsabilità enormi di rappresentanza, cui è giunto quasi sempre per meriti indiscutibili.
Quella del diplomatico è una professione privilegiata e invidiabile? Forse lo è, sicuramente è una professione unica nelle sue caratteristiche e che richiede anni e anni di studio, duro lavoro e a volte sacrifici, oltre ad una forte disponibilità a mettere se stessi al servizio dei vicini e del proprio Paese: una vera e propria missione.

Roma, 2 dicembre 2006: noi c’eravamo!

Che sarebbe stata una giornata memorabile lo avevamo intuito già da qualche settimana. Inizialmente raccogliendo le richieste della gente comune che già dalla fine dell'estate ci sollecitava ad andare in piazza il prima possibile contro questo governo vergognoso. E poi, ancora di più, lavorando per quasi un mese in Viale Monza e tra i chiostri della Cattolica per l'organizzazione dell'evento, rispondendo alle telefonate delle persone più diverse e incontrando centinaia di studenti e cittadini che volevano dare un senso alla propria indignazione.
Ma mai avremmo potuto immaginare una manifestazione di questa portata. Partenza alle ore 6 dal Castello Sforzesco, 3 pullman organizzati da noi, più molte altre persone che hanno preferito il treno. Sopraggiunge alla partenza una troupe del TG1, che ci tiene compagnia per una buona ora sul pullman numero uno. Il servizio andrà poi in onda al telegiornale delle 13:30. Lungo l'autostrada, da Milano a Roma, un passaggio incessante di pullman dei partiti della CdL (ne avremo incontrati almeno un centinaio), poi tutti gli autogrill e le aree di servizio dell'A1 intasate di giovani e meno giovani avvolti nelle loro bandiere tricolori, nei soli delle alpi, nei simboli della loro appartenenza politica. Quindi all'ingresso dell'Urbe, una coda chilometrica (oltre un'ora di attesa) con centinaia e centinaia di mezzi bloccati per poter accedere ai parcheggi dell'EUR e delle altre zone periferiche.E, finalmente arrivati, una marea umana mai vista che intasava la metropolitana e si metteva in marcia anche a piedi per raggiungere i luoghi di partenza dei cortei. Dovunque un fiume in piena, uomini e donne di ogni parte d'Italia, di tutte le età e le classi sociali, molti per la prima volta in piazza, a rivendicare tutti insieme il proprio diritto di esistere e di far sentire la propria voce libera.
Tanti cori, è vero, qualcuno anche politicamente scorretto (e meno male!), ma non una vetrina rotta, non un cassonetto ribaltato, non un ferito, né un incidente. Una grandissima lezione di civiltà alle sinistre di lotta e di governo che da sessant'anni hanno monopolizzato le piazze in modo non sempre pacifico. Un corteo immenso, finalmente tricolore e non rosso, una grande festa di popolo che ha difeso le proprie tasche ma anche i propri valori, ringraziando più volte le forze dell’ordine presenti e onorando con una bandiera di 500 metri gli eroi di Nassiryia.
E poi, dopo quasi due ore di cammino, di grida, di salti e di corse, di passione e di energia, ecco aprirsi ai nostri occhi lo spettacolo indimenticabile di una piazza San Giovanni già piena all'inverosimile, pronta ad accogliere non dei semplici leader di partito, ma i padri (Berlusconi, Fini e Bossi) di un'intera comunità pronta ad abbracciarli e a far sentire tutto il suo calore e il suo affetto.Alla fine, stanchi ma rinfrancati dai discorsi, dalle ovazioni, dalle musiche, dagli applausi di un popolo davvero unito, ecco dalle parole di Silvio il regalo più bello: "Gli organizzatori mi pregano di darvi una notizia che ha dello straordinario (...) Hanno valutato la vostra presenza in più di DUE MILIONI di persone!" E la folla si stringe in un unico grandissimo boato di gioia e soddisfazione per una giornata che entrerà nella storia di questo paese.
Dal punto di vista politico, si è trattata della consacrazione di ciò cui i leader della CdL aspirano, ma che mai avrebbero immaginato potesse già esistere: il partito unico della libertà, il partito del centrodestra, della gente perbene, dei lavoratori, dei cristiani e dei liberali, tutti uniti nella difesa dei propri valori e nella contestazione al nichilismo relativista della sinistra.
Ecco i passaggi importanti dei discorsi di Berlusconi e Fini che avvalorano le nostre tesi:
«La nostra idea della politica è pienamente laica, ma ha qualcosa di sacro. “Chi crede non è mai solo”, ha detto il Santo Padre nel suo viaggio in Germania. E ha ragione: guardatevi intorno, guardate quanti siamo. Siamo molti, siamo moltissimi a credere negli stessi ideali. […] Siamo il popolo del centrodestra, un popolo che condivide gli stessi valori, la stessa visione del futuro. Ci accomuna la stessa visione della libertà, della democrazia, della patria, della persona, della famiglia, del lavoro, dell’impresa. Questa è la nostra grande forza.»
«Non saranno le invidie, le malizie di qualcuno, le indiscrezioni fasulle, le tante, troppe polemiche alimentate ad arte a dividere ciò che questa piazza unisce. Questa piazza dimostra la volontà di rappresentare una seria, credibile, vincente alternativa al peggior governo che l’Italia abbia mai avuto. […] Se moltiplicheremo i circoli della libertà, se inviteremo tutti i dirigenti a serrare i ranghi, se facciamo, quindi, ciò che la piazza ci chiede, ciò che oggi sembra lontano è in realtà molto vicino: il centrosinistra, se è maggioranza di poco in Parlamento, non ha la maggioranza del paese.»
Una manifestazione di piazza non abbatterà un governo eletto democraticamente (è tale, aspettando il riconteggio delle schede), ma sicuramente ha mostrato al governo quanto sia debole e quanto poco sia vicino alle aspirazioni e agli interessi degli Italiani. Grazie a tutti i presenti!


Un po' di chiarezza su PACS e coppie omosessuali

Nel tragicomico panorama politico italiano, dal quale i cittadini avvertono un sempre maggiore distacco, come ha "scoperto" il Presidente Napolitano, si sente tanto parlare di PACS e coppie omosessuali, divenuti, anzi, i temi al centro del dibattito politico. Ebbene sì, i nostri parlamentari si scaldano più per la concessione di diritti a famiglie non convenzionali, che per aiutare davvero le famiglie "regolari" in difficoltà.
Ma prima di affrontare la questione, un paio di considerazioni preliminari sono necessarie.
Uno: ogni persona ha il diritto di avere l'orientamento sessuale che desidera, o che gli è stato imposto dalla natura, e di non essere discriminato in ragione di esso. Considerazione che potrebbe apparire superflua, ma non lo è affatto per una lunga serie di motivi.
Due: le manifestazioni di "orgoglio gay", così scomposte e fuori dai canoni, sono assolutamente controproducenti per gli omosessuali. I primi a rendersene conto sono gli stessi omosessuali che vorrei definire "seri", ossia quelli che per natura hanno, da sempre, un orientamento omosessuale, e che soffrono nel vedere strumentalizzata la loro condizione per motivi politico-elettorali.
Ciò detto, cosa sono i PACS? Un atto legislativo, o insieme di leggi, volte a regolare le convivenze tra coppie, siano esse omosessuali o eterosessuali, per la concessione di diritti simili o uguali a quelli delle coppie sposate.
Cosa c'è di male nel regolamentare le "unioni civili"?
Innanzitutto, la definizione "unioni civili" è sbagliata. Una coppia può sposarsi in Comune, e non in Chiesa, e quindi rientrare nella categoria "unioni civili". Ma questo tipo di unione è parificato in tutto e per tutto a quello delle coppie sposate (anche) in Chiesa. E ci mancherebbe...
Le "unioni civili" di cui si discute sono qualcosa di diverso: appunto, coppie - eterosessuali o omosessuali - non sposate, per cui si chiedono particolari diritti.
Ora, questi diritti non possono essere concessi in maniera generalizzata per legge o addirittura costituzionalmente a tutte le coppie non sposate. A tal proposito mi vengono in mente le battaglie della sinistra "in difesa della Costituzione", che viene invece ignorata quando non corrisponde ai propri interessi o calcoli (cito a titolo di esempio l'Art. 29, c. 1: "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio" e l'Art. 95, c. 1: "Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e coordinando l'attività dei ministri").
Non è possibile concedere mille e uno diritti senza che le coppie in questione abbiano zero doveri e obblighi nei confronti della società. Perchè si dovrebbe permettere a una coppia del genere lo stesso trattamento di una sposata, quando la prima può benissimo decidere una mattina che la propria unione non esiste più? Le coppie sposate hanno doveri e obblighi nei confronti della società che le coppie non sposate non hanno. Ergo, zero doveri, zero (o quasi) diritti.
Il quasi è assolutamente voluto: in maniera diversa rispetto ai pruriti radical-social-comunisti presenti a sinistra come (aihmé!) a destra, sono perfettamente consapevole che la vita non è mai perfetta. I casi della vita sono tanti, non si può considerare una situazione uguale ad un'altra.
Allora, per casi particolari, che possono risultare anche in percentuale elevata, possono essere poste in essere una serie di misure concessorie di diritti attraverso semplici modifiche ad hoc del Codice civile. Mi spiego con un esempio: una coppia eterosessuale non sposata di cinquantenni con bambini, in cui almeno un coniuge ha alle spalle un matrimonio fallito è sicuramente cosa diversa da una "coppia" omosessuale di ventenni che non hanno ancora compreso cosa fare della propria vita. E allora, per la prima coppia si inseriscano nel Codice dei provvedimenti ad hoc a tutela della loro condizione; la seconda, continui a vivere serenamente la propria condizione senza troppo clamore.
Una considerazione finale sul tema dei diritti e in particolare dell'adozione da parte di persone omosessuali: nella società attuale tale concessione è impensabile; assunto che due persone dello stesso sesso non possono procreare, obiettivo che la società (se non la natura o Dio, che pare contino sempre meno) ha assegnato ad un uomo e una donna per volta, gli omosessuali non possono pretendere gli stessi diritti delle coppie eterosessuali; la questione, di ordine sociale e politico volendo tralasciare gli aspetti biologici e morali, non può essere aggirata attraverso l'adozione di un bambino: qui entra in gioco una terza persona, indifesa e incapace di decidere per se stessa, che non si può permettere venga "violentata" nella sua libertà da qualsivoglia voglia di "maternità" o "paternità" omosessuale.
Fortunatamente, in Italia esistono ancora menti pensanti, che si spera evitino una deriva zapaterista.

Anche i giovani di Forza Italia contro Prodi

In qualità di responsabile del gruppo Studenti per le libertà dell’Università Cattolica vorrei precisare alcune cose in riferimento alla contestazione per l’assegnazione di una laurea honoris causa a Romano Prodi da parte della nostra università.
La protesta ha avuto grande risalto su tutti i media italiani, sebbene pochi se ne siano occupati con perizia. Non entro nel merito della decisione del nostro prestigioso ateneo, ma le definizioni di «dilettante», «impacciato» e «dal linguaggio piatto» date in passato da grandi quotidiani europei all’ex presidente della Commissione Europea lasciano comprendere buona parte della levatura del personaggio.
La contestazione è stata operata da tre gruppi: Studenti per le libertà, sicuramente il più numeroso, Azione Universitaria (il gruppo giovanile della componente Destra Sociale) e dai ragazzi del MUP – Lega Nord. Il nostro gruppo, SPL, attivo da due anni in Cattolica, è espressione del movimento giovanile di Forza Italia, ma mira al coinvolgimento di tutti gli studenti di centrodestra.
Una volta riunitici per proclamare la contrarietà a questo riconoscimento, abbiamo organizzato un giro di email, sms, telefonate e utilizzato il nostro sito internet (
www.splmilano.com) per pubblicizzare l’iniziativa, comunque spontanea e volontaria. La linea condivisa dal gruppo è stata quasi del tutto rispettata: non volevamo una protesta partitica, né mostrare simboli o striscioni come altri hanno fatto. Abbiamo affisso manifesti nei chiostri per esprimere ancor più chiaramente il nostro dissenso, ma i contenuti non sono mai stati violenti né volgari.
Il giorno della laurea ci siamo radunati un’ora prima del conferimento e protestato sino al termine della cerimonia. Inoltre, Studenti per le libertà si dissocia apertamente dai saluti fascisti ostentati da altri studenti, che non rispecchiano i valori della destra moderna, liberale e cristiana in cui crediamo e per cui operiamo.